Una passione millenaria, che unisce il nord e
il sud del mondo, attraverso credenze religiose, pratiche
magiche e superstizione. Per risalire alle origini della birra,
occorre tornare indietro nel tempo, al periodo in cui legumi e
cereali erano alla base dell'alimentazione quotidiana. Furono i
Sumeri a codificarne il metodo di produzione e a dar origine
alla professione del mastro birraio. Toccò però agli Egiziani
far conoscere questa bevanda agli altri popoli orientali. Da
qui, poi, l'arte della birra si sviluppò nell'Europa del nord e,
quindi, in tutto il resto del mondo. In Italia, i primi
estimatori della birra furono gli Etruschi e furono proprio loro
ad importare l'orzo. Anche i Romani, pur preferendo il vino, non
disdegnavano la birra, la bevanda "barbara" che tanto piace alle
popolazioni non latine. E gli Ebrei, durante la fuga
dall'Egitto, consumano pane senza lievito e un particolare tipo
di birra, che ancora oggi è protagonista dell'annuale festa del
Purim. Nella Grecia classica, dove padrone incontrastato delle
mense era il vino, la birra importata dall'Egitto col tempo
divenne addirittura la bevanda ufficiale dei giochi Olimpici. E,
tra gli antichi ammiratori, non possiamo dimenticare i Celti
che, nelle loro scorribande, tracannavano birra dai corni.
La ricetta di base non conobbe mutamenti sino al Medioevo. Le
prime modifiche furono apportate dai monaci delle grandi
abbazie, i quali iniziarono ad impiegare varie sostanze
aromatizzanti, come il rosmarino, l'alloro, la salvia, lo
zenzero ed infine il luppolo. Col tempo, la produzione da
artigianale diviene industriale. La prima vera fabbrica di birra
italiana apre a Nizza Marittima, nel 1789. Nel 1890, le aziende
che producono birra nel nostro paese sono già 140: quasi tutte
al Nord, grazie all'abbondanza di acque sorgive. Ma le prime
birre "made in Italy" erano in realtà "birroni", bevande forti
ad alta fermentazione che, abitualmente, venivano mischiate con
l'acqua per stemperarne il gusto.
La birra nel mondo antico
Dalle origini dell'uomo
Agli albori della sua comparsa sulla terra, l'uomo viveva nei
boschi, che ricchissimi ricoprivano il globo, e si nutriva
essenzialmente di bacche, radici, frutti e, per quanto gli era
possibile, di caccia. Questa vita difficile, dura, tesa alla
continua ricerca di cibo, fra l'altro non sufficientemente
disponibile per tutto l'arco dell'anno, faceva si che la
crescita della popolazione fosse estremamente limitata sia
perché la scarsità di cibo influiva sulla fertilità, sia perché
per la sopravvivenza, i gruppi familiari o piccole tribù,
avevano bisogno di larghi spazi ove cacciare ed effettuare la
ricerca dei vegetali commestibili.
Soltanto dopo aver scoperto l'agricoltura - ma per compiere
questo piccolo passo occorsero migliaia di anni - l'uomo poté
disporre di più abbondanti quantitativi di cibo per tutto il
periodo dell'anno, raggiungendo così più sicurezza e serenità.
Quindi uscì dalla foresta e conquistò i larghi spazi delle
praterie ove meglio poté applicare le pur rudimentali tecniche
agricole. Le famiglie crebbero, si formarono tribù, villaggi,
paesi, sempre più grandi centri abitativi, sino a raggiungere le
dimensioni di vere e proprie città. Sulla terra cominciava il
processo di crescita della popolazione che, nel breve volgere di
pochi millenni, avrebbe portato la civiltà dell'uomo sino ai
nostri tempi.
Parallelamente allo sviluppo dell'uomo, avveniva lo sviluppo
degli animali; sino a quando questi abitavano le foreste, il
loro numero era modesto e di piccola taglia. Quando anche loro
invasero le praterie, la enorme abbondanza di cibo dei ricchi
pascoli li fece aumentare di numero e di dimensione; ne é un
esempio il cavallo il quale, in origine, non era più grande di
un coniglio, pur essendo già formato nella morfologia attuale.
Alcuni animali erbivori crebbero a dismisura, come i dinosauri,
i brontosauri, e di conseguenza crebbero le dimensioni dei
carnivori, come i tirannosauri. Ma tutto ciò rientra nella
storia della evoluzione della specie.
Improvvisamente, per fattori che non sono stati ancora
pienamente chiariti, i grandissimi animali sono spariti, quasi
contemporaneamente, dalla faccia della terra. Una delle più
accreditate e moderne teorie, fa risalire questo accadimento nel
terziario, circa 65 milioni di anni fa, alla esplosione di una
supernova nelle vicinanze del nostro sistema solare, ad appena
880 anni luce dalla Terra; una bazzecola! Le radiazioni
avrebbero interferito sulla capacità riproduttiva di tutta le
specie viventi di grande, media e piccola taglia, portandoli
alla estinzione nel breve volgere di una generazione. Ne fu
influenzato anche il plancton che modificò in parte la sua
struttura. Sopravvissero solo alcune classi di piccoli animali e
da questi ripartì l'evoluzione della specie, ricominciando tutto
da capo, o quasi.
Ma torniamo all'uomo. Gli abitanti dei boschi, per rispondere
agli innumerevoli misteriosi interrogativi della natura, come la
nascita, la morte, le piogge, i lampi, i tuoni, il sole, le
stelle notturne, la luna con le sue fasi, la crescita dei
frutti, il fuoco, il gelo dell'inverno, e così via, avevano
individuato forze misteriose alle quali attribuire la causa di
quei fatti, per la loro mente, così strabilianti e non
diversamente spiegabili: stiamo assistendo alla nascita della
religiosità, con tutte le collaterali animistiche, le credenze,
i cerimoniali, i tabù, i totem, le divinità che tanto più
importanti erano quanto più era inspiegabile e misterioso
l'evento che rappresentavano.
Uscendo quindi nella prateria, l'uomo si portò appresso tutto il
bagaglio religioso, e trasferì sui prodotti del suolo, così come
aveva fatto con gli animali dei boschi, la sua cultura
animistica.
Nacquero allora le divinità agricole: la dea Nidaba dei Sumeri,
la vacca solare Hanub degli egiziani e Cerere, la dea romana del
raccolto.
La popolazione delle divinità crebbe così a dismisura: una per
ogni evento, spesso doppioni importati dalle tribù o popolazioni
limitrofe. Gli dei erano tanti, potenti e spesso pericolosi.
Occorreva ammansirli, ingraziarseli. Nacquero così i riti
propiziatori, i sacrifici che volevano essere di buon auspicio e
di espiazione nello stesso tempo.
Nei boschi l'uomo offriva alle divinità le bacche, le radici
raccolte, i piccoli animali; quindi animali più grandi ed in
maggior numero in rapporto alla ricchezza alimentare raggiunta.
Nella evoluzione del sistema si spiegano così i sacrifici umani,
estrema espiazione delle colpe, estrema volontà di accattivarsi
le terribili divinità negative. L'uomo giunge sino al sacrificio
di se stesso, o dei propri figli, per arrivare al sacrificio di
altri uomini che immola in vece sua, dopo essersi identificato
nella vittima. Da ciò le guerre tribali, non solo tese alla
conquista di territori, ma anche per rifornirsi di prigionieri
da utilizzare quali schiavi e quale materia prima per i riti
espiatori.
L'esempio più significativo, sopravvissuto dalla notte dei tempi
sino al medio evo, ci viene dal popolo Atzeco. Quando Cortes
conquistò il Messico nel 1519, scoprì con raccapriccio gli
orrendi sacrifici umani che questo popolo compiva in onore delle
proprie divinità, raggiungendo la non indifferente cifra di
20.000 vittime all'anno, vittime che si procurava con
interminabili guerre combattute contro le più deboli popolazioni
limitrofe. La storia racconta che quando Cortes, animato da
buoni propositi - dopo però aver sistematicamente spogliato quel
popolo di tutti i suoi tesori e di tutte le sue ricchezze -
volle iniziare Montezuma, l'ultimo Imperatore Atzeco, ai misteri
della religione Cristiana, fu l'Imperatore a provare a sua volta
orrore e raccapriccio: "E' vero - si narra abbia risposto a
Cortes - noi per onorare le nostre divinità uccidiamo uomini e
ne divoriamo il cuore, ma sono pur sempre uomini, infinitamente
piccoli e poco importanti rispetto alla grandezza dei nostri
dei. Ma voi per onorare il vostro dio ne divorate le sue carni e
ne bevete il suo sangue!" e con questo si riferiva al Sacramento
della Comunione.
Era lo scontro fra due civiltà, scontro che, come spesso é
avvenuto nella storia dell'umanità, é finito con la soppressione
di quella più debole.
Questa lunga premessa, per arrivare a soffermarci con più
attenzione su un particolare aspetto della lunga catena dei riti
propiziatori e sacrificali: quello dei cereali.
Occorre sottolineare che le cerimonie sacrificali avevano due
principali aspetti simbolici. Il primo, probabilmente il più
significativo, attraverso la totale combustione del cibo, sia
vegetale che animale, quale rinuncia al cibo stesso, per far
giungere, attraverso la fiamma ed il fumo, l'intima essenza del
sacrificio sino alla divinità. Nel secondo aspetto il sacrificio
si compiva divorando il cibo sacrificale, in onore della
divinità; in questo atto, il sangue della vittima, liquido
misterioso che fuoriuscendo dal corpo ne spegne la vita, ha un
significato di estrema importanza. Bevendo la coppa di sangue se
ne ingerisce l'essenza sacrale, l'essenza vitale con la quale si
onora dio. Con altrettanta sacralità si spreme il succo dei
frutti per estrarre la parte più intimamente essenziale; questo
forse il motivo per il quale il primo uomo ha spremuto l'uva,
con quel che ne consegue.
Questo stesso principio ha indotto probabilmente l'uomo a far
macerare la farina di frumento nell'acqua, per estrarne la
vitalità, birra primordiale passata, nell'uso, da bevanda
sacrificale a bevanda abituale. Non sembra quindi ardua la tesi
che le origini della birra risalgano sino dai tempi della
scoperta dell'agricoltura. La sacralità della birra, impiegata
nelle cerimonie religiose, si ritrova in tutta la letteratura
storica, dalla sumerica alla egiziana, come vedremo più avanti.
Se ci addentriamo profondamente nella storia, scopriamo, forse
con sorpresa, che, ancor prima delle popolazioni germaniche,
grandi bevitori di birra furono i Sumeri e gli Egiziani. La
"culla della civiltà" é stata la prima patria di preparatori e
bevitori di questa nobile bevanda. Fiumi di birra hanno
attraversato per millenni l'Asia e l'Egitto, principale bevanda
del tempo, a rinfrescare gole assetate, quale preziosa merce di
scambio e di commercio, sacrale lavacro e offerta votiva nelle
cerimonie religiose. Se ne conosce perfettamente le tecniche di
produzione, ampiamente codificate nei testi sacerdotali che la
definiscono di origine divina, a riprova del carattere
nutrizionale, oltre che inebriante, che la fanno assurgere a
fasti di bevanda nazionale.
Se é vero che si beve vino sino dai tempi di Noé, si beve birra
almeno sino dai tempi dei nipoti di Noé. Racconta la Bibbia che
Noé fu il primo uomo a piantare la vite e ad estrarre dall'uva
un succo che trovò talmente gustoso da berne al punto da cadere
in terra completamente ubriaco, facendogli perdere ogni dignità
umana, tanto da suscitare le ire delle sue nuore, scandalizzate
dalle oscene nudità che nei fumi dell'alcol metteva in mostra.
Il resto della storia é nota: dalla costruzione dell'Arca al
diluvio universale, evento che ha certamente una sua validità
storica dal momento che si ritrova nelle leggende di moltissime
religioni, fra queste nella epopea Assiro-Babilonese di
Gilgamesch, che si perde nella notte dei tempi.
Narra una antica leggenda Irlandese che Cassair (o Cesara),
nipote appunto di Noé, probabilmente stanco di quel nonno
barboso e dalla lunga permanenza nell'Arca, in mezzo a tutti
quegli animali, che fra l'altro non dovevano proprio olezzare di
rose, decise di abbandonare la navicella allontanandosi su una
barchetta, portando con se le sue poche cose, e fra queste, un
pentolone di coccio con il quale era solito prepararsi
dell'ottima birra. Navigando per il vasto mare, approdò, dopo un
periglioso viaggio, sulle spiagge dell'Irlanda dove scoprì che
già da oltre mille anni gli abitanti di quell'isola preparavano
birra, secondo una ricetta misteriosa e segreta di cui erano
gelosi custodi i Fomoriani, antichi e tenebrosi abitatori delle
foreste, metà uomini e metà uccelli.
Facciamo adesso un pò di conti.
Noé visse sino a 950 anni; quando aveva 600 anni avvenne il
diluvio dal quale scampò anche Cassair. Presumiamo che piantò la
vite all'età di 300 anni. Quando Cassair sbarcò in Irlanda i
Fomoriani già producevano birra da oltre 1.000 anni.
Dunque la birra é più vecchia del vino di almeno 700 anni!
Scherzi a parte, ed a parte ogni leggenda, la birra fu
certamente la prima bevanda mai consumata dall'uomo. Molto tempo
prima della vite, già si coltivava nel mondo l'orzo che,
spontaneo o coltivato, fu ed é presente in tutte le latitudini
della terra, mentre é noto che la vite cresce solo nella fascia
temperata.
Quando gli assiro-babilonesi e gli egiziani, oltre tremila anni
prima di Cristo, avevano avviato la loro splendida civiltà che
li vedeva grandi costruttori di città, dense di operosa
popolazione, abilissimi vasai, forgiatori e cesellatori di
metalli, ottimo tessitori ed abili tintori, capaci allevatori ed
agricoltori, conoscevano la scrittura, cuneiforme e geroglifica,
sapevano tener di conto, ed infine conoscevano le tecniche di
preparazione delle loro birre, la civiltà mediterranea era
ancora nel paleolitico.
La penisola italica, terra a particolare vocazione vitivinicola,
era ancora nell'età della civiltà villanoviana. Gli abitanti
quando non vivevano nelle caverne, abitavano capanne di paglia e
fango costruite su palafitte nelle aree perilacustri. Si
dedicavano ancora alla raccolta delle bacche alternando una
forma primitiva di semi agricoltura. Praticavano la pesca e la
caccia, ed erano appena agli albori di una forma arcaica di
allevamento. I suoi strumenti erano asce di pietra levigata;
falcetti, raschiatoi, coltelli, punte di lance e di frecce
ricavate dalla selce.
L'era del bronzo antico inizia fra il XIX° ed il XVIII° secolo
avanti Cristo, e il settentrione della nostra penisola era
ancora avvolta nelle nebbie della Cultura Polade e il vino era
ancora nella notte dei tempi.
I Sumeri
La civiltà sumera fu certamente la più grande ed antica civiltà
mai comparsa sulla faccia della Terra. Nasce, poco prima della
civiltà Egiziana, nella fertile terra d'Asia in una fascia
compresa fra il fiume Tigri e l'Eufrate. Nel periodo sumerico ed
akkadico, per tutti i secoli di supremazia della città di Ur,
per intenderci oltre 5.000 anni fa, si ricavava dall'orzo,
prodotto principale dell'agricoltura di allora, una bevanda
nazionale, molto simile alla nostra birra, che veniva chiamata "se-bar-bi-sag",
letteralmente "bevanda che fa veder chiaro". In effetti, visto
il suo contenuto alcolico, più che schiarire, appannava la vista
di chi sprovvedutamente ne avesse bevuta troppa, ma il
folcloristico nome deriva da una antica leggenda di cui
parleremo più avanti.
Babilonia fu per 1.500 anni il centro della civiltà mesopotamica.
Sorprendente la sua rete di fognature, autentico miracolo di
ingegneria; straordinari i suoi giardini pensili per i quali era
famosa ed erano annoverati fra le sette meraviglie del mondo.
Famosa la sua torre, tipica costruzione ricorrente in molte
città del tempo, ma che a Babilonia raggiungeva la non
indifferente altezza di 90 metri, identificata in tempi moderni
nella biblica "torre di Babele".
Famosissimi erano i suoi tessuti che sapeva produrre di ottima
qualità e con colorazioni raffinate. Famosa la "moda
Babilonese", esportata con successo ovunque, indumenti che
lasciavano scoperto il seno - antesignano "topless" - ad
esaltare la bellezza delle loro donne, pienamente integrate nel
tessuto sociale, considerate fra le più belle del mondo
conosciuto.
Ma ancora più famosa era la se-bar-bi-sag che preparavano di
svariata ed ottima qualità, oggetto di commercio e intenso
scambio in tutta la Mesopotamia ed oltre.
Descrizioni molto precise sui procedimenti di lavorazione, oltre
alle immancabili minuziose contabilità di produzione, scorte e
commercio, si trovano nei "Codici hammurabici".
Hammurabi fu un grande Re babilonese che regnò dal 1728 al 1686
a.C. Durante il suo lungo regno - 42 anni per quei tempi era un
autentico record - costruì templi, fortificazioni, canali di
irrigazione, compì possenti imprese di guerra per le quali fu
chiamato "Re delle quattro parti della Terra", con ciò
intendendosi tutto il mondo allora conosciuto. Più famosa ancora
fu la sua capacità di legislatore, tanto da essere dai posteri
ricordato come il Mosé babilonese. Nei codici, opera di
grandissima mole, composti da 282 articoli, oltre un prologo ed
un epilogo, raccoglie leggi e regole di vita per il suo popolo.
Fra queste tavolette di argilla redatte nei caratteri cuneiformi
in lingua accadica, ve ne sono appunto alcune che illustrano
puntigliosamente come deve essere preparato il "vino di datteri"
e la se-bar-bi-sag. E' sorprendente notare come tale
procedimento, siano ancora oggi valido nella sua essenzialità:
maltizzazione, macinatura, lievitazione, cottura, filtraggio,
aromatizzazione.
La fabbricazione era estremamente semplice ed efficace.
Selezionavano dal raccolto annuale il migliore orzo, che veniva
posto ad inumidire sino a quando principiava la germinazione,
quindi veniva messo ad asciugare al sole e quando era ben secco,
si macinava e si impastava con acqua formando dei pani. Quando
questi erano spontaneamente lievitati, si ponevano a cuocere a
forno molto caldo, in modo che si formasse rapidamente la
crosta, mentre all'interno la pasta doveva rimanere molliccia.
Per ottenere la birra, questi pani venivano frantumati e posti a
cuocere con abbondante acqua in grandi recipienti di terracotta,
quindi, al liquido filtrato, si aggiungevano erbe aromatiche,
come la salvia ed il rosmarino. Tutto ciò avveniva sotto lo
stretto controllo dello Stato, l'unico e solo ad avere diritto a
tali produzioni, e la lavorazione ufficiale veniva fatta nei
locali delle cantine reali, dai prestigiosi "gal-bi-sag", i
Mastribirrai dell'epoca, utilizzando apposite giare e vasi sui
quali spiccavano, oltre ai simboli dell'orzo e della birra, i
sigilli reali.
Largamente diffuse erano le produzioni contadine e familiari,
anche queste sotto l'attento controllo dello Stato che imponeva
tasse e balzelli con specifiche concessioni di produzione.
Nulla di nuovo sotto il sole!
Ingegnosa, e, a dir poco, curiosa, la conservazione del frumento
nelle anfore granarie. Prima di sigillarle ermeticamente con
cera d'ape, ponevano all'interno alcune piccole tartarughe le
quali, respirando, consumavano tutto l'ossigeno, assicurando
così la migliore conservazione. Insomma, primordiale ma efficace
sottovuoto! In tempi recenti, sono state ritrovate alcune di
questi recipienti sottovuoto alla tartaruga e le granaglie si
presentavano ancora in un accettabile stato di conservazione.
Il più noto ed autorevole bevitore di birra del mondo antico, fu
il mitico eroe babilonese Enkidu, così come viene narrato nella
epopea di Gilgamesch. Nella biblioteca del Re Assurbanipal a
Ninive, furono ritrovate, nel 1850, una notevole quantità di
tavolette di argilla incise con caratteri cuneiformi. Trasferite
nel museo di Londra, rimasero a dormire sino a quando George
Smith ne scoprì, nel 1872 la chiave di lettura, riportando alla
luce, fra l'altro, la più antica e suggestiva epopea
dell'umanità, più antica di millenni della stessa Babilonia.
In dodici libri si racconta di Gilgamesch, re di Uruk, vissuto
in Mesopotamia circa 2.500 anni prima, e che si diceva essere
figlio di una dea e di un demone. Egli governava con estrema
durezza, tiranneggiando il popolo ed abusando delle donne a suo
piacere, compiendo le peggiori efferatezze con brutale perfidia.
Gli dei decisero allora che era tempo di por freno alla
scelleratezza di quel re e crearono dall'argilla un essere umano
che sarebbe dovuto diventare il complemento positivo di
Gilgamesch, contrastando e correggendo il tiranno. Lo inviarono
sulla Terra ove crebbe in libertà nella foresta, al solo
contatto della natura. Uomo primitivo e selvaggio, era ancora
incapace di parlare e di ragionare; doveva quindi acquisire
coscienza, sapere e saggezza, ed allora......
Egli bevve della se-bar-bi-sag
ne bevve sette volte
il suo spirito si sciolse
egli parlò ad alta voce
il suo corpo si riempì di benessere
il suo volto si illuminò......
Formidabile questa birra babilonese! |
Continuano le tavole narrando l'incontro dei due eroi, come
questi si affrontarono in una titanica lotta nella città di Uruk,
e che viene così descritta: |
Enkidu ostruì la porta con un piede
non lasciò entrare Gilgamesch.
Si affrontarono come tori
frantumarono lo stipite della porta
il muro tremò...... |
Dalla lotta escono entrambi vincitori; il tiranno fisicamente,
Enkidu moralmente poiché, diventando suo intimo amico, ne
corregge i difetti conferendogli generosità, saggezza e
misericordia, così come avevano voluto gli dei.
Insieme compirono mirabolanti e cruente imprese, in quell'antico
mondo popolato da mostri. Affrontarono ed uccisero il gigante
Khumbaba, custode della foresta dei cedri, rendendola finalmente
accessibile all'umanità. Per festeggiare si abbandonarono ad una
formidabile bevuta di birra che li tenne fuori coscienza per
giorni e giorni. In preda ai fumi dell'alcol, contravvenendo
alle leggi divine, nell'esaltazione della loro lotta, uccisero
quindi il Toro Celeste. Per punizione gli dei fecero morire
Enkidu di malattia. Pazzo di dolore ed in preda alla paura della
morte, Gilgamesch vagò per il mondo sino a quando scoprì le
porte degli Inferi, che attraversò alla ricerca
dell'immortalità. Nel suo viaggio ultraterreno incontrò
Uta-Napisthim, suo antichissimo antenato, l'eroe babilonese del
diluvio universale.
E' questo l'undicesimo libro, il passo più bello di tutta
l'epopea. Si racconta che gli dei, per punire gli abitanti di
Suruppak delle loro malefatte, decisero di scatenare il diluvio
universale. Ne informarono Uta-Napisthim al quale ingiunsero di
costruire una imbarcazione sufficiente a contenere tutti i suoi
familiari ed un esemplare maschio ed uno femmina di tutti gli
animali conosciuti. Ovviamente il nostro eroe non dimenticò una
abbondante razione di orzo nonché i capaci recipienti di
terracotta con i quali preparare la sua se-bar-bi-sag personale.
Il diluvio si scatenò, durò sette giorni e seppellì tutta la
terra. Quando la pioggia cessò, Uta-Napisthim cercò di
individuare dove le acque, ritirandosi, lasciavano scoprire la
terra; fece uscire prima una colomba, poi una rondine ma
entrambe tornarono. Quando fece uscire il corvo e questo non
fece ritorno, capì che aveva trovato terra e cibo e comprese che
il diluvio era finito.
Gilgamesch non trovò l'immortalità, ma trovò la saggezza
dell'uomo maturo che gli permise di regnare indisturbato per
lunghi anni, finalmente amato dal suo popolo.
Ma andiamo ancora più in dietro nel tempo, sino alla nascita
degli dei ed alla nascita del mondo stesso.
Marduck, il dio solare babilonese, prima di ingaggiare la sua
tremenda lotta contro il drago Tiamet, signore e padrone del
caos, convoca tutti gli dei e brinda con loro con abbondanti
libagioni di se-bar-bi-sag quale auspicio di vittoria. Sarà
stato per la ben nota potenza della straordinaria birra
babilonese, sarà perché così era scritto nell'ordine delle cose,
il dio solare sconfigge il dio delle tenebre dopo una titanica
lotta che lo vede morire e rinascere un numero infinito di volte
e, con la sua vittoria, crea dal nulla la luce del sole.
Marduck é legato al concetto della fertilità e del succedersi
delle stagioni; é una divinità potentissima che muore e risorge
a simboleggiare il letargo invernale ed il risveglio della
primavera. Veniva festeggiato tutti gli anni ed i Misteri di
Marduck si celebreranno ancora nell'età classica, all'inizio
dell'anno babilonese che coincideva con l'inizio della
primavera.
La processione partiva dal tempio del dio, preceduta da una sua
gigantesca statua e seguita da una lunga teoria di otri di birra
e di animali sacrificali. Convergevano a Babilonia una immensa
folla di popolo, proveniente da tutte le regioni della
Mesopotamia, e, per tutto il tempo dei festeggiamenti, bevevano
ininterrottamente birra in onore del dio, a ricordo della sua
lotta contro Tiamet, e per allontanare lo spirito delle tenebre.
Dopo quattro giorni, diciamo così, di sacrificio, venivano
immolati nel santuario del dio un agnello ed un montone i quali,
gettati nel fiume, portavano via con loro tutti i peccati del
popolo, assolvendolo in toto.
Assurbanipal é il porta bandiera di titanici banchetti ed
orgiastiche libagioni.
Ultimo di trenta re dell'Assiria, passato alla storia con il più
noto nome latino di Sardanapalus, viene descritto da Erodoto
come il re potentissimo della città di Sard, un re che amava
vestirsi e truccarsi come una donna. Era dedito al bere -
naturalmente birra - ed al sesso con particolare tendenza verso
i maschietti, pur non disdegnando le numerose ancelle del suo
harem. Nelle solite tavolette cuneiformi, si legge testualmente
che "alla sua mensa la birra scorreva a fiumi" ed il cibo si
consumava a montagne in giorni ininterrotti di lussuriosi
festeggiamenti. La sua filosofia di vita era, come egli stesso
ha fatto incidere sul suo monumento funebre, "nulla al mondo
conta, tranne mangiare, bere e far l'amore. Tutto il resto vale
solo quanto uno schioccar di dita" Per questo la sua statua
funeraria lo effigia nell'atto di schioccare le dita.
Se tanto frivolamente visse, virilmente seppe morire. Quando il
ribelle Arbace, alla testa di Persiani, Medi e Babilonesi, dopo
tre anni di assedio riuscì a conquistare la città di Sard, trovò
che Sardanapalus aveva fatto costruire una immensa pira sulla
quale si era assiso, con tutti i suoi averi ed i suoi familiari,
ed imperterrito si era dato fuoco.
Scavando ancora indietro nella storia, non possiamo trascurare
Sargan il Grande, fondatore della prima dinastia semitica, nel
2.528 prima di Cristo.
Sentiamo come il re stesso racconta le sue origini:
"Io sono Sargan, Re forte, Re di Akkad. Mia madre era una
sacerdotessa, mio padre un semidio. Mia madre mi concepì di
nascosto, mi pose in una cesta di giunchi e sigillò il
coperchio. Mi pose nel fiume -l'Eufrate- che non mi inghiottì.
Il fiume mi sostenne e mi portò da Akki l'agricoltore. Questo mi
lavò nella se-bar-bi-sag, mi allevò come un figlio e fece di me
un giardiniere." - il lavacro nella birra rivestiva carattere di
sacralità, come una sorta di battesimo, trasmettendo il vigore
della bevanda e la fertilità delle messi.
Ancora una volta abbiamo la prova che la Mesopotamia fu la
grande culla della nostra civiltà; da questa provengono gran
parte delle nostre leggende, da quella del Diluvio Universale, a
quella di Romolo e Remo, a quella di Enea con la sua discesa
negli Inferi, a quella di Mosé.
Alla maggiore età, ovvero al compimento del quattordicesimo
anno, Sargan viene presentato alla corte del re Ur-Zababa dove
in breve giunge l'altissimo grado di Coppiere, con il compito di
custode delle sacre coppe reali nelle quali era tenuto
personalmente a versare le bevande al re, vino di datteri e
birra. Con una congiura di palazzo, evento consueto all'epoca,
uccide il re, conquista il potere e fonda la città di Akkad,
dove trasferisce la capitale con la sua corte. Grande
conquistatore, estende il suo regno dal Golfo Persico alla Siria
alla Anatolia, tutto il mondo conosciuto, meritando giustamente
il titolo di Re dei quattro angoli della Terra, raggiungendo in
56 anni di regno un immenso potere e prestigio.
Ogni anno ricordava le sue origini sacre, proclamando grandiosi
festeggiamenti ad Akkad ai quali partecipava una strabocchevole
folla proveniente appunto dai quattro angoli della terra.
Impalmava una vergine sacerdotessa dalla cui gestazione si
traevano auspici di fertilità e quindi compiva pubbliche
abluzioni di birra in ricordo del suo salvataggio dalle acque
dell'Eufrate.
Seguivano ovviamente le immancabili processioni ed i
festeggiamenti si protraevano per giorni e giorni ed al popolo
osannante venivano distribuiti migliaia di otri di se-bar-bi-sag
e montoni e buoi arrostiti in un'orgia di birra cibo e sesso da
far impallidire i più impenitenti gaudenti.
Una specie di Oktoberfest ante litteram!
Nei secoli successivi, molto tempo dopo che fu estinta la
dinastia dei sarganidi, durata un millennio, nella tradizione
sacra popolare si continuavano a tramandare i riti sarganidi,
legati al mito della fertilità e della procreazione, e la birra
rivestiva il doppio carattere di bevanda sacra, per la sua
origine divina, e di festosa bevanda di uso comune.
Meno edificante era l'uso che faceva della birra Nabucodonosor
(604-562 a.C.), in certe particolari quanto frequenti occasioni
della sua vita. Fu un grandissimo e prestigioso Re che seppe
portare il suo regno al massimo sviluppo attraverso grandi
campagne belliche dalle quali riportava immancabili vittorie. Ma
non fu solo un grande re guerriero, fu anche un raffinato
architetto o comunque uomo capace di servirsi dei migliori
artigiani che offriva la piazza. Di grandiosa imponenza il suo
esagil - il palazzo reale - ricco di affreschi e di statue di
squisita fattura. Mirabolanti le mura che cingevano Babilonia,
rendendo la città imprendibile da qualsiasi nemico. Di
strabiliante bellezza la Porta di Istar, porta principale e
strada di accesso alla città, interamente ricoperte di
bassorilievi in ceramica che raffiguravano la dea ed una
processione di tori alati, la cui vista, presso il Museo
Archeologico di Berlino, suscita ancora oggi profonde emozioni.
Ma Nabucodonosor era anche tristemente famoso per la tecnica con
la quale era solito liberarsi delle sue innumerevoli amanti,
quando ne era stanco. Con la scusa di farle partecipi di sacri
lavaggi in onore della dea Nidaba, le faceva immergere in una
grande piscina colma di se-bar-bi-sag avendo cura di far loro
indossare tutti i gioielli della corona. E' facile intuire che
le poverette, per il gran peso dei preziosi monili, annegavano
miseramente - nulla poteva o bere o affogare viste le dimensioni
della piscina - mentre il buon Nabucodonosor assisteva
all'evento commemorando e tessendo le lodi e le capacità
amatorie delle sue amate con canti e libagioni.
Anche questo Re deve essere stato un formidabile bevitore di
birra, almeno stando al folto numero di amanti che si dice abbia
avuto!
Nel vasto olimpo delle divinità sumere spiccava, per importanza
specifica, Nidaba, dea del frumento, protettrice dei gal-bi-sag
- gli abili preparatori reali - e quindi patrona della birra.
Questa divinità veniva onorata, in occasione delle innumerevoli
feste ricorrenti annualmente, con collettive bevute di birra
che, nei santuari, veniva distribuita gratuitamente e in grandi
quantità alla popolazione.
Ci è stata tramandata una vastissima documentazione, frutto di
ricerche e scoperte archeologiche, circa l'uso ed il costume
birrario delle antiche popolazioni sumeriche. Un gran numero di
tavolette cuneiformi ci narrano di contabilità, di commercio, di
donazioni nei santuari per onorare le diverse divinità, di
sistemi di produzione e di usanze sacre. I musei di tutto il
mondo sono pieni di anfore da birra e da orzo, con impressi i
rispettivi simboli, e di vasi istoriati con scene di raccolto
del frumento, scene di fabbricazioni della bionda bevanda e
scene di processioni nelle quali spiccano fra tutte le anfore
birrarie.
Gli Egiziani
Importantissima era la produzione di birra anche nell'antico
Egitto che, nei consumi popolari, veniva subito dopo l'acqua del
Nilo. Scarsa la presenza del vino d'uva, più diffuso invece il
vino di datteri.
Le prime notizie certe risalgono al 3100 avanti Cristo e narrano
della ostessa Azag-Bau la quale preparava e vendeva nella sua
cantina una birra di cereali, che nella lingua egiziana più
arcaica veniva chiamata "henqet". Nasce probabilmente
parallelamente alla se-bar-bi-sag sumera, e non si hanno
documentazioni sufficientemente comprovanti la priorità dell'una
sull'altra.
Gli egiziani facevano risalire l'invenzione della birra al dio
Rie, il quale ne aveva fatto splendido dono agli uomini. Dai
testi sacri del tempio di Uruk si deduce che dovevano essere
almeno quattro i tipi di birra prodotti, birra che veniva
offerta annualmente in diciotto vasi d'oro al dio Anu. Se ne ha
però notizia certa di solo tre tipi: la "zythum", birra chiara,
la "curmy" che doveva essere di colorazione più scura, e la "sà",
birra ad alta concentrazione, riservata all'esclusivo consumo
del Faraone e per le cerimonie religiose.
La lavorazione era molto simile a quella sumerica, a parte la
maltizzazione che venne scoperta ed impiegata solo in epoche
successive, probabilmente quando si volle imitare la più
raffinata lavorazione della prestigiosa birra Babilonese. Per
l'aromatizzazione si ricorreva con maggiore frequenza al miele
di datteri ed alla cannella, non disdegnando però salvia e
rosmarino.
La birra é presente lungo tutto l'arco della vita degli antichi
egiziani: dalla nascita alla morte. Lattanti, venivano svezzati
con una miscela a base di zythum, acqua, miele e farina di orzo;
più grandicelli, venivano iniziati ad un moderato consumo della
bionda bevanda regalando loro, con una apposita cerimonia di
iniziazione, una piccola anfora che doveva costituire la dose
massima quotidiana di birra permessa, anfora che li seguiva fin
dopo morti e che veniva posta nel sarcofago - ovviamente quei
defunti che avevano diritto di aspirare all'immortalità.
Il processo di mummificazione, che durava mesi, veniva preceduto
da un lavacro a base di birra, evidente simbolo di purificazione
per il carattere sacrale e per l'origine divina della bevanda.
Occorre dire che nel Libro dei Morti nel capitolo che tratta
della imbalsamazione nella Casa dei Morti, solo i Faraoni, i
dignitari, i sacerdoti e le personalità più importanti del regno
avevano diritto a questo trattamento che, conservando il corpo,
assicurava l'immortalità dell'anima. Soltanto questi personaggi
erano depositari, per volere divino, di un'anima che entrava a
far parte dell'aldilà, in amena compagnia delle altre numerose
divinità. Solo i Faraoni, dopo morti, divenivano essi stessi
divinità, andando ad occupare un preciso posto nel complicato
ordinamento divino. Il popolo, purtroppo per loro, non disponeva
di nessun tipo di anima, nonostante le abluzioni interne ed
esterne di birra, in vita e da morti.
Nel testo del Regno Antico, conservato nelle piramidi di Sakkara,
alla descrizione di quanto era necessario al defunto per il
lungo viaggio dell'oltre tomba, figura sempre il geroglifico di
zythum e curmy. Durante le interminabili estenuanti cerimonie
funebri, tutti i presenti per onorare il defunto facevano
abbondanti libagioni di birra, così come si legge sul papiro di
Prisse trovato nella necropoli di Abido e che consigliava:
"....non ti lascerai prendere dal dolore sino a stordirti, ma
troverai conforto bevendo zythum e curmy...." (da papiri
conservati nel museo egiziano di Torino)
I Sacerdoti completavano la funzione funebre bevendo sà mentre
intonavano il lamento funebre che all'incirca recitava: "....é
triste salire sulla barca di Rie senza speranza di trovare
zythum e curmy in abbondanza come vorrebbe l'anima tua...."
(ibidem)
Ramsete III° (1300 a.C.) si vantava di aver donato durante tutta
la sua vita ben 463.000 vasi di birra alla potentissima divinità
Isthar, la dea della fertilità, dell'amore, ma anche protettrice
dei naviganti e degli eserciti, come recita la sua litania:
....astro del mattino
stella del mare
regina della terra
patrona dei naviganti
guida degli eserciti..... |
Isthar veniva identificata nel pianeta Venere, il primo e più
luminoso astro a comparire nel cielo notturno. In suo onore era
stato eretto il tempio di Medinet-Habu dove, con puntigliosa
pignoleria, nelle tavolette contabili si annotavano i generi
alimentari introitati, ed il consumo giornaliero di bevande: ben
144 otri di birra, ed alcuni di vino e vino di datteri. Ciò
comprova, se ancora ve ne sia bisogno, oltre la sacralità di
questa bevanda, anche le sue proporzioni di consumo rispetto le
altre.
Certamente la birra era anche di uso popolare, ma il popolo non
ne poteva disporre a volontà secondo i propri desideri, come
traspare da un canto contadino che recitava con una vena di
rimpianto: "....trebbia la paglia dall'orzo, per i signori che
vogliono zythum..." (ibidem), mentre una dolcissima canzone
d'amore inneggia all'amato bene: "....quando ti bacio sulle
lebbra dischiuse, sono felice anche senza zythum..." (ibidem)
Nelle tavole raccolte nella biblioteca di Tutmosi III° (1480 a.C.)
é scritto come il dio Osiride, divinità notturna patrono del
regno dei morti, ricevesse due volte l'anno dal faraone Sotis I°
ben 1200 otri di birra che veniva impiegata per le libagioni
sacre e per essere distribuita al popolo in occasione delle
festività religiose. Narrano inoltre di Zhutu, generale di
Tutmosi III°, il quale non riuscendo a conquistare dopo un
estenuante assedio la fortezza di Yoppo, pensò bene di far
ubriacare la guarnigione fenicia abbandonando fuori dalle mure
un abbondante quantitativo di otri di birra, riuscendo così
nell'intento.
Amenophis IV, figlio di Amenophis III°, sale al trono alla morte
naturale - evento raro - del padre nel 1362 a.C. Uomo di grande
apertura mentale, si rende subito conto che l'effettivo potere é
da tempo radicalmente in mano alla potente classe sacerdotale.
Non sarà dunque lui a regnare sull'Egitto, ma il Grande
Sacerdote, così come era sempre stato sin dai tempi dei suoi
avi.
Uomo intelligente, ma anche ambizioso, decide che d'ora in poi
il governo dello Stato dovrà passare nelle sue mani. Per far ciò
ha un solo mezzo: destituire la divinità imperante, il dio
Ammone, ottenendo così il declassamento di tutta la casta
sacerdotale. Crea quindi una nuova divinità capostipite, unica e
sola abitatrice dell'olimpo celeste: il dio Athon, rappresentato
nel disco solare, dispensatore di luce in terra, origine di ogni
specie vivente e, come tale, padre celeste dello stesso Faraone.
Cambia quindi il suo nome in Ekenathon, letteralmente figlio di
Athon, ed inizia il processo di restaurazione facendo
distruggere tutte le statue del regno del vecchio dio Ammone, a
partire dalla capitale, la città di Tebe.
In un eccesso di moralismo ed ascetismo, ordina che sia proibita
ogni produzione di birra, che siano chiusi tutti gli spacci e fa
distruggere tutte le riserve di questo prodotto, sia nelle
cantine reali che in quelle di tutti i dignitari, sino ai più
umili osti. Siamo propensi a credere che più da un eccesso
morale, fu spinto dalla necessità di precludere ogni passata
formalità religiosa che vedeva quale principale attore la birra.
Dunque il dio Athon non beve birra, e nemmeno Ekenathon!
Ma i sacerdoti sono in grande numero, troppo forti, ed il loro
potere sul popolo ancora intatto. Ekenathon non si attenta a
scatenare una guerra civile di religione, dalla quale avrebbe
ben poche prospettive di uscirne vincitore - aveva certamente
tutto il popolo contro, se non altro per aver proibito la birra
(terribile errore politico!) - decide allora di abbandonare Tebe
al suo apostata destino e di costruire una nuova città: Amarna.
In tre anni di ininterrotto lavoro di schiavi pagati a suon di
frusta, costruisce in pieno deserto la nuova capitale del regno,
ricca di nuove costruzioni, cinta da imprendibili mura e con una
sola porta di accesso. In questa fa costruire il suo nuovo
palazzo ed uno splendido santuario dedicato al suo padre
spirituale, il dio Athon.
Nella città fortezza, a Tell-el-Amarna, vivrà monasticamente con
la sua bellissima moglie Nefertiti, sicuramente la più bella
donna mai esistita nell'antico Egitto, come si può ancora vedere
dagli splendidi busti in calcare, di cui uno, scoperto nel 1912,
perfettamente conservato ed ancora fresco di vividi colori,
esposto nel museo del Cairo. Lo segue la sua numerosa corte, i
dignitari della nuova classe sacerdotale di cui egli é il capo
incontrastato, ed una vasta schiera di artigiani, servitori e
schiavi.
E' una città assolutamente autonoma, provvista di tutto ma, hai
loro! non si produce una sola goccia di birra, bevanda che il
Faraone aborrisce. Pullulano però, fuori dalle mura, i venditori
di zythum e curmy che fanno affari d'oro con tutti i cittadini
meno asceti di Ekenathon.
Modesto comunque fu il governo di questo Faraone che, governando
sulla sua città, si illuse di governare l'Egitto, saldamente in
mano alla vecchia classe sacerdotale.
Alla sua morte naturale - ma ci sia concesso più di qualche
dubbio - avvenuta nel 1345 a.C., sale al trono, ancora bambino,
il nipote Tutankathon al quale aveva destinato in moglie la
propria figlia, da lui stesso sposata alla morte di Nefertiti,
per farla assurgere al rango di Regina ed assicurare così al
prediletto nipote il legittimo titolo di Faraone.
Dopo soli tre anni Tutankathon abbandonava la città fortezza,
che nel breve volgere di pochi anni si riduceva in polvere
insieme ai sogni di gloria e di un dio unico di Ekenathon.
Tornava a Tebe ed abiurando il dio solare Athon, riabbracciava
la vecchia fede del dio Ammone e, con sommo gaudio dei sacerdoti
i quali in tutto ciò dovevano avare messo più di uno zampino,
cambiava il suo nome in Tutankamon. Chi non conosce oggi questo
nome di Faraone, illustre sconosciuto per il suo brevissimo
regno, ma tramandato in eterno ai posteri per la ricchezza del
ritrovamento della sua tomba.
Quando nel 1922 Lord Carnarvon e l'archeologo inglese Howard
Carter stavano compiendo scavi nella Valle dei Re, in Egitto, si
imbatterono casualmente in un sigillo che riportava il cartiglio
di un fantomatico faraone, Tutankamon, del quale nessuna traccia
figurava nella sia pur lunga e minuziosa genealogia delle stirpi
faraoniche. Con la pazienza del certosino ed animati dalla
speranza di trovare una nuova tomba, cominciarono gli scavi. La
loro costanza fu premiata quando, dopo un considerevole numero
di insuccessi, poiché la vera tomba era protetta da una sequela
di finte porte, finti corridoi e finte camere mortuarie, si
imbatterono nell'anticamera della vera camera mortuaria. Il
sogno segreto di tutti gli archeologi si era avverato! la più
grande scoperta archeologica del mondo! la prima ed unica tomba
di faraone assolutamente intatta ed inviolata. Nell'anticamera
giacevano alla rinfusa centinaia di oggetti - ciascuno dei quali
avrebbe fatto la fortuna di un archeologo - dal più semplice
utensile di uso comune, al più raffinato oggetto regale: il
carro da battaglia, sedili e divani di fattezza squisita
intarsiati d'avorio ed oro, animali fantastici scolpiti in legni
pregiati ed il pezzo più importante della collezione: il trono
del re con effigiato sulla spalliera il ritratto del re e della
sua consorte.
Carnarvon e Carter pensavano di aver trovato tutto il trovabile,
ma erano appena all'inizio. Scavando ancora per scoprire la
cella mortuaria, si imbatterono in una seconda stanza ancora più
ricca di reperti, molti dei quali erano oggetti preziosi di
raffinata fattura. Un tesoro di immenso valore! Ma le sorprese
non erano ancora finite. Ancora una porta sigillata ed una terza
stanza, aperta la quale si trovarono di fronte ad un muro d'oro,
ma che si rivelò essere la parete di una enorme cassa dorata,
all'interno della quale vi era una seconda cassa anche questa
dorata, quindi una terza ed ancora una quarta, come in un gioco
di matrioske russe. All'interno di questa ultima cassa si
trovava un sarcofago di quarzite gialla, lungo circa tre metri
ed alto uno e mezzo, sul quale spiccava il ritratto in legno di
Tutankamon. Convinti di essere finalmente arrivati alla mummia
del faraone, sollevarono la pesante lastra di marmo che
ricopriva la cassa e trovarono una prima bara avvolta in bende
di lino che sostenevano la prima delle maschere d'oro tempestata
di gemme che rappresentava il volto del Faraone. All'interno di
questa ancora un'altra cassa con ancora una maschera funeraria
d'oro massiccio, coloratissimi smalti e pietre preziose. E per
finire, ancora un'altra cassa, la terza ed ultima, tutta in oro
massiccio, dal peso di svariati quintali, nella quale finalmente
fu raggiunta la mummia del Faraone sulla quale troneggiava la
terza ed ultima maschera funeraria, la più bella, la più nota al
grande pubblico.
A conti fatti, il corpo del faraone riposava in una sequela di
otto casse, e tornava alla luce dopo 3270 anni! Come ebbe a dire
Carter, l'unico merito ed aspetto importante della vita di
Tutankamon fu "perché morì e fu sepolto" con fasti e ricchezze
di tesori d'arte e di preziosi mai eguagliati da nessun altro
faraone nella storia d'Egitto.
Ma torniamo alla nostra più semplice e genuina birra.
Memorabili devono essere stati i banchetti in tutte le dinastie
dei Faraoni; fiumi di birra, non metaforici ma autentici fiumi
di birra, attraversavano le mense regali riccamente imbandite,
lungo le quali scorrevano rivoli di birra continuamente
alimentati da capaci otri di zythum. I commensali non dovevano
fare altro che immergere le coppe e brindare, brindare,
trascorrendo le lunghe giornate delle innumerevoli festività
religiose fra montagne di cibo e torrenti di birra, fra canti
sacri e danze un pò meno sacre, sino a quando tutti cadevano
esausti dalle pantagrueliche mangiate e bevute. Non per nulla si
sta parlando di banchetti faraonici!
Quando nel 1934 un gruppo di archeologi francesi cominciò a
scavare nella zona di Tell-Hariri, erano ben lungi dall'idea di
scoprire l'antichissima, famosissima ma altrettanto fantomatica
città di Mari, città che, sorta nel III° millennio avanti
Cristo, assurse al massimo fasto sotto il regno del suo ultimo
re Zimrilim e fu distrutta, rasa al suolo e bruciata dagli
eserciti di Hammurabi di Babilonia nel 1739 a.C. Da allora era
rimasta sepolta per quattromila anni, sino a quando, appunto nel
1934 se ne intraprese lo scavo.
Il palazzo reale, che ricopriva l'astronomica superficie di
30.000 mq., era dotato di ben trecento stanze di cui due,
evidentemente quelle dell'appartamento personale del re,
corredate di tutti i servizi igienici e da due vasche da bagno
collegate a grandi caldaie di terracotta per scaldare l'acqua. E
ancora stanze destinate ad aule scolastiche, con file di panche
e scrittoi e con stili e le tavolette di terracotta come se
fossero appena state usate dagli scrivani. Ma la grande sorpresa
fu la biblioteca, una immensa stanza rettangolare letteralmente
piena di tavolette che il fuoco anziché distruggere, aveva
consolidato rendendole leggibili. Parte erano ancora
ordinatamente alloggiate sugli scaffali, altre erano cadute e
ricoprivano il pavimento sino a due metri e mezzo di altezza.
Lettere, rendiconti, atti di governo, intrighi politici,
resoconti di viaggi, di battaglie, storie di uomini e di
divinità; scorci di vita quotidiana che doveva essere scorsa
intensa e ricca di eventi scrupolosamente annotati e codificati.
Più di ventimila tavolette, solo in minima parte tradotte, fra
queste, la contabilità della produzione, della vendita e delle
donazioni di birra, di orzo per birra e per la panificazione.
Ma il ritrovamento, per noi birrofili, più interessante fu
quello della Dea zampillante, una statua di donna, di normale
altezza, con in mano un vaso recanti i sigilli dell'orzo e della
birra. Attraverso una canalizzazione interna alla statua,
collegata con una grande anfora esterna, scorreva la zythum che
fuoriusciva dal vaso. Ingegnoso sistema per alimentare i già
noti fiumi di birra che attraversavano le mense dei Faraoni.
Non possiamo certo chiudere questo capitolo sull'Egitto senza
accennare all'ultima regina della sua storia, la più nota la più
chiacchierata: Cleopatra.
Tutti ne conoscono la storia, più o meno veritiera, narrata,
romanzata, cinematografata, ed é a tutti noto come, sentendosi
vecchia, non più desiderata, sentendo di aver perso il suo ben
noto fascino femminile, e timorosa di essere trascinata a Roma
quale trofeo di guerra, decise di por fine ai suoi giorni
facendosi mordere il seno da un aspide.
Ebbene, prima di compiere questo ultimo definitivo gesto, si
fece mescere dalle ancelle due coppe di sà, la forte birra degli
dei, che offrì una a se stessa, prossima dea sorgente
dall'imminente morte, ed una alla dea Anubi che l'avrebbe
accompagnata nel lungo viaggio d'oltretomba.
L'olimpo egiziano è costellato da numerose divinità, in un
complicato gioco di personificazioni e metamorfosi. Fra queste
la potentissima Hothor, figlia di Rie, una delle maggiori dee
del pantheon egiziano, divinità solare femminile impersonata nel
sicomoro.
Nella rappresentazione del sole era impersonata dalla vacca
Hanub, con l'emblema del disco solare fra le corna e con le
mammelle che spargevano latte e birra. Il popolo egiziano usava
portare al collo una sua effigie sia come talismano contro le
malattie, sia come portafortuna per assicurarsi, siamo convinti,
ampia disponibilità di birra per tutto l'anno.
Anche in medicina e nelle formule magiche la birra rivestiva
carattere di grande importanza; come balsamo contro le malattie
con particolare riferimento a quelle di origine intestinale, per
curare le ferite, come antidoto al velenoso morso degli
scorpioni. Si racconta che il mago Dodi, con ripetuti impacchi
di birra, riuscì addirittura a resuscitare un toro ed un'oca
riattaccandone la testa mozzata.
La birra era inoltre comunemente impiegata quale complemento
agli emolumenti degli operai. Infatti, durante i lavori della
grandi costruzioni, nelle miniere o nei semplici lavori dei
campi, oltre al salario, agli uomini liberi veniva distribuita
una misura di birra ogni tre ore, agli schiavi due misure al
giorno mentre ai prigionieri di guerra - meschini! - quando
andava bene, una misura al dì.
Vastissima la raccolta di reperti archeologici che ci raccontano
di birra e dei costumi birrari egiziani. In centinaia di rotoli
di papiro viene menzionata la birra nei suoi momenti di consumo
abituale e quotidiano; vasi e vassoi istoriati con scene di
raccolta dell'orzo, della sua produzione, di cerimonie
religiose; bassorilievi con spighe di orzo, vasi da birra, geni
seduti sotto l'albero della birra, rappresentazione figurata
dell'albero della vita. Famosa la statuetta conservata nel museo
di Firenze e che rappresenta una donna inginocchiata, intenta ad
impastare pani per birra. Formidabile lo stendardo murale
dipinto all'interno della tomba di Ti, dignitario di corte
preposto alla fabbricazione della birra riservata alla corte del
Faraone, nel quale, in una lunga sequela di scenette, vengono
istoriate le varie fasi della lavorazione della bevanda.
Al Louvre, un plastico a tutto rilievo, ritrovato nella tomba
del cancelliere Nakhti-Assiout, mostra, a cielo aperto,
l'interno di una fabbrica di birra, con personaggi intenti alle
varie fasi della lavorazione.
Bellissima la tomba di Ounson e di sua moglie Imenhetep,
contabile dei sacri granai di Ammone nella città di Tebe nella
XVIII dinastia, interamente trasferita e ricostruita in una sala
del Louvre. Gli stendardi dipinti lungo le pareti rappresentano
tutte le fasi inerenti la semina ed il raccolto dell'orzo. Nella
parte riguardante la mietitura, fra le alte spighe, frammiste
alle figure degli schiavi intenti al lavoro, circolano
portatrici di anfore da birra intente ad offrire la ristoratrice
bevanda.
Sempre al Louvre, scolpita su di una lastra di marmo, la Tavola
dei conti, il menu dei morti, con il lungo e dettagliato elenco
di tutte le cibarie e le bevande da porre nella tomba a ristoro
del defunto, e fra queste: "due misure di birra - una misura di
birra al miele di datteri - una misura di vino di datteri -
...."
I Romani, i Greci, i Cretesi
Partiamo da una considerazione: se Cleopatra seppe conquistare
prima Cesare e poi Antonio avvalendosi delle sue raffinate
seduzioni di amante - che dovevano essere varie e spettacolari -
e della sua ben nota arte culinaria, non può non aver iniziato
questi illustri personaggi alle delizie della birra. Sembra
quindi probabile e credibile che al loro rientro in patria
abbiano conservato questa abitudine, se non altro in ricordo dei
trascorsi amorosi.
Non sembra inoltre azzardata l'ipotesi che anche Trimalcione, il
ricchissimo quanto buzzurro anfitrione descritto da Petronio nel
suo Satiricon, bevesse birra egiziana, per sfoggiare un prodotto
esotico con i suoi commensali. Al termine del pranzo, raccontato
con arguta dovizia da Petronio, sorprese i suoi ospiti facendo
girare fra i triclini un sarcofago con dentro uno scheletro,
tipica usanza di ogni fine pranzo dei Faraoni i quali volevano
così ricordare ai commensali la caducità della vita,
richiamandoli verso pensieri meno prosaici del mangiare e bere.
Se Trimalcione conosceva così bene questa usanza, doveva
conoscere altrettanto bene la birra egiziana, e non è
improbabile che in qualche pranzo successivo abbia offerto
zythum e curmy, anche per risparmiare una volta tanto il suo
preziosissimo Falernum Optimianum annorum centum !
Si sa di certo come Nerone facesse largo uso di birra. Ne
riceveva spesso in dono da Silvio Ottone, l'infelice marito di
Poppea che aveva opportunamente spedito in Portogallo per
potersi incontrare liberamente con la di lui moglie. Era
ovviamente birra della penisola iberica, la cerevisia, e
l'Imperatore la gradì tanto che volle presso di se uno schiavo
lusitano, abile mastro birraio, addetto alla quotidiana
preparazione della bionda bevanda.
Tacito ci da una vivace testimonianza della birra nel mondo
germanico, descrivendola però in termini tutt'altro che
lusinghieri, come un vino d'orzo, grossolano, dal sapore
sgradevole. Probabilmente non era lontano dal vero, poiché in
quei tempi quel popolo doveva essere ancora ben lontano dalle
raffinatezze di una zythum o di una se-bar-bi-sag. Ma Tacito era
anche un grande estimatore di vino, che consumava in
ragguardevoli proporzioni, dal ché il suo giudizio sulla birra
ci lascia alquanto perplessi.
Più scientifico invece il commento di C.Plinio Secondo, autore
di quella formidabile enciclopedia che é la "Naturalis Historia".
Nel suo XXXVII libro ci fa sapere che la birra a Roma era
conosciuta ma poco consumata, per lo più impiegata nella cosmesi
femminile per la pulizia del viso e quale nutrimento per la
pelle. Nelle Province invece era molto apprezzata e largamente
diffusa, dalla penisola iberica alla Francia all'Egitto, e nella
sua Historia ce ne descrive minuziosamente due tipi: la zythum
egiziana e la cerevisia della Gallia.
Il mondo romano conosce bene la birra anche se ne fa un uso
sporadico e limitato, e non poteva essere diversamente visto che
in tutte le terre conquistate, divenute poi Province romane,
questa bevanda aveva larghissima diffusione e godeva di grande
prestigio. Probabilmente i conquistatori la consumavano
abitualmente quando si trovavano nelle Province, ob torto collo,
non trovando nulla di meglio in loco, per il loro gusto. Non la
apprezzavano particolarmente, ma nemmeno la disprezzavano,
usando nei confronti di questa bevanda la classica tolleranza
romanica.
Contrariamente i Greci, o meglio, alcuni Greci, avevano una
decisa antipatia nei confronti della birra che chiamavano anche
loro con il termine spregiativo di vino d'orzo. Eschilo nelle
"Supplici" formalizza il pensiero dei suoi concittadini poiché,
parlando con tono di scherno degli Egiziani, dice: "....gli
abitanti non sono uomini veri, ma uomini che bevono vino
d'orzo...". Che tipo di vino bevessero poi i "veri uomini" ce lo
racconta Omero. Una coppa di vino schietto allungato con due
coppe di acqua di fonte, aromatizzato con miele e resine varie.
Così mesce il vino Patroclo ad Achille sotto le mura di Troia;
una bevanda - o un intruglio? - che almeno per il grado alcolico
doveva essere, se non inferiore, pari alla birra; in quanto al
sapore, sfidiamo il lettore a farne la prova! Comunque
abitualmente in Grecia il vino si beveva schietto solo in alcune
occasioni, mentre nell'uso comune veniva preparato come ce lo
descrive Omero.
Ben presente invece era la birra nei rituali sacri nel culto
della dea Demetra, divinità femminile dei campi, delle messi,
Gran Madre della Terra alla quale aveva fatto il dono della
fertilità. Ogni anno, in primavera, le donne greche si riunivano
per compiere una cerimonia tanto mistica quanto misteriosa,
legata al culto della fertilità femminile ed alla iniziazione
delle vergini, cerimonia dalla quale era tassativamente esclusa
ogni presenza maschile. Offrivano a Demetra "succo d'orzo e di
grano" ed in suo onore si abbandonavano a sostanziose libagioni
di "birra di cereali" lasciandosi andare a riti che avevano più
del profano che del sacro. Meglio non indagare oltre!
Probabilmente questo é il vero motivo che fa dire a Plinio che
la birra é bevanda da donne.
I Cretesi erano invece ottimi preparatori di birra, che
chiamavano "bruton" e che consumavano in proporzioni pari se non
maggiori del vino che sapevano produrre, anche questo, di ottima
qualità. La birra veniva preparata artigianalmente in proprio,
sia nelle case dei contadini che in quelle patrizie - in queste
ultime veniva lasciata alle solerti cure delle gentili matrone -
a testimonianza della larga diffusione in tutti gli strati
sociali.
Sugli stupendi vasi ritrovati a Cnosso, frequenti sono le
decorazioni con spighe di orzo e sovente appare il simbolo della
bruton sulle altrettanto stupende coppe d'argento finemente
cesellate, adibite allo specifico consumo di questa bevanda.
Nella reggia di Minosse si mesceva bruton in eguale misura del
vino; bruton si offriva al Sacro Toro e bruton bevevano in
abbondanza le danzatrici sacre prima di compiere le loro
spettacolari acrobazie, nelle arene, sulla groppa di scalpitanti
tori selvaggi, spericolato e quasi sempre cruento esercizio di
alta tauromachia.
Duemila anni di civiltà raffinata, elegante, colta e progredita
che si esprime in diversificate attività creative, fanno di
Creta la perla del mar Egeo. Grandioso il palazzo reale di
Cnosso, ricchissimo di affreschi che ci fanno rivivere momenti
di vita dell'epoca, e fra questi il "Corridoio delle
Processioni" ove figurano, fra l'altro, coppieri recanti anfore
di diverse forme che dovevano contenere vino e bruton.
L'immancabile vastissimo magazzino reale traboccante di "pithoi",
giare gigantesche, ciascuna con il suo bravo simbolo per
distinguerne il contenuto: vino, olio, grano, orzo da birra e
bruton. In una di queste, narra la leggenda, annegò Glauco,
figlio di Minosse, forse nel tentativo di bere fino a scoppiare
di quella bionda deliziosa bevanda.
Più piccolo, ma estremamente più raffinato, il palazzo reale di
Festo, dotato di una fornitissima biblioteca, di un teatro, di
sala da scrittura e di una stupenda sala da bagno corredata da
un efficace sistema di condutture per l'acqua calda e l'acqua
fredda, interamente rivestita di alabastro, da far invidia ai
moderni sceicchi.
Elegantissima la sala del trono e gli appartamenti reali, tutti
finemente decorati con affreschi raffinati di squisita fattura
di sapore moderno: non dimentichiamo che siamo nel 1700 avanti
Cristo, quando, ripetiamo, in Italia settentrionale era appena
iniziata l'era del Bronzo Antico!
Anche qui i ben forniti magazzini con le loro brave giare per la
bruton, ed una ricca collezione di vasi decorati con i motivi
che ne richiamavano il contenuto: la palma per il vino di
datteri, l'orzo per la bruton, la foglia di vite per il vino di
uva.
Dai magazzini di questo palazzo, in ancora oggi efficienti
condotte di ceramica, scorreva vino e bruton sino alle mense
reali, offerte ai commensali da nobili coppieri che versano il
vino in larghe coppe d'oro e di argento e la birra in lunghi
calici affusolati per meglio far risaltare la spuma, come si può
vedere da una delicata statuetta di maiolica, raffigurante una
non identificata dea, elegantemente vestita ed adora di ricchi
gioielli, con in mano l'affusolata coppa con il simbolo della
bruton.
Il Medioevo
"Gambrinus fue chiamato finché visse,
regnò in quel di Fiandre e di Bramante.
Dall'orzo il malto pria di tutto estrasse,
poscia di birra fé l'arte brillante
tal che li posteri vantasse
d'aver avuto un Re, Mastro insegnante." |
Ci sia concesso tradurre così una antica ballata popolare
tedesca che narra di Gambrinus, mitico re germanico, al quale la
leggenda fa risalire l'invenzione della birra.
Grato per il dono della bevanda nazionale tanto amata, il buon
popolo germanico pensò bene di immortalare il personaggio,
addirittura santificandolo e trasmettendolo ai posteri con il
nome di Sanktus Gambrinus. Molti dubbi vi sono comunque circa la
reale esistenza di questo re e controversa la sua presunta data
di nascita. Secondo la leggenda, si dice contemporaneo di
Carlomagno, quindi intorno all'anno 750, e sarebbe stato famoso
sia come inventore della birra che come fondatore della città di
Cambrais; ma questa città era già nota e florida sino dall'epoca
Gallo-romanica, quindi precedente alla nascita di Cristo.
Ad ogni buon conto la birra era nota e consumata in quella
regione già da quell'epoca, e non é ne giusto ne storicamente
esatto farne risalire la nascita in Germania solo dai tempi di
Carlomagno.
Infatti, già Tacito dalle sponde del Reno contemplava con
disgusto i truculenti e rissosi guerrieri Galli ingurgitare
enormi quantità di quella bevanda, che definisce "barbaro vino
di orzo", sdraiati su pelli d'orso, fino ad ubriacarsi
indecentemente. Quattro secoli prima dell'era volgare, Pitia
narra ai suoi contemporanei greci di un certo mosto d'orzo che
veniva allegramente bevuto dai Galli, mentre Catone e Plinio il
Vecchio dichiaravano la birra essere bevanda nazionale
germanica.
Contentiamoci quindi di confinare Gambrinus in una area
puramente leggendaria e ricordiamolo così come viene descritto:
un grassissimo rubizzo personaggio, con una fluente barba,
vestito con abiti regali di foggia vagamente romanica, assiso su
un sontuoso trono, il capo cinto da una corona di spighe d'orzo
ed in mano uno spumeggiante boccale di birra. Di lui non si
narrano epiche gesta di battaglie e di conquiste, ma solo di
battaglie compiute su tavole imbandite, coronate da colossali
bevute di bionda birra.
Solamente a partire dal medioevo germanico si affina e si
perfeziona l'arte di preparare la birra; da lavorazione
puramente casalinga, diventa progressivamente di preparazione
semi industriale. Si abbandona l'uso del tino di coccio e si
principia ad usare il più consono recipiente di rame che
conferisce alla birra più raffinate caratteristiche.
E' un continuo proliferare di fabbriche e fabbricanti, ed i
villaggi fanno a gara a chi la produce meglio, mentre i villici
gareggiano a chi ne beve di più, ed i consumi crescono con il
migliorarsi della qualità.
La birra viene variamente aromatizzata con rosmarino, ginepro,
resine, eccetera, e soltanto dal 1270 in poi si inizia ad
utilizzare il luppolo di cui se ne scopre il felice connubio con
il malto d'orzo. Ogni produttore comunque si regola in materia
come meglio preferisce, secondo il gusto personale o la
convenienza economica - il luppolo era troppo costoso.
Dobbiamo arrivare al 1516, al famoso editto di Guglielmo IV di
Bavaria, per avere una precisa regolamentazione circa la
corretta preparazione della birra, come prescritto nel "Das
Reinhetsgebot", letteralmente "legge della purezza" In questa,
oltre stabilire precise quotazioni di mercato, secondo qualità e
misure, stabiliva: "....in particolare vogliamo che d'ora in
avanti nelle nostre città, mercati e paesi, non sia usata o
venduta alcuna birra con altri ingredienti che non siano solo
luppolo, malto d'orzo e acqua....." stabilendo pesanti sanzioni
per i contravventori.
Oltre alle sanzioni pecuniarie, ben più pesanti pene venivano
inflitte ai recidivi. Per verificare la genuinità della birra, i
controllori di quel tempo versavano una pinta di birra su una
panca di legno e vi facevano sedere il mastro birraio che
l'aveva prodotta. Se, asciugandosi, i calzoni di cuoio non
rimanevano attaccati, voleva dire che la birra era genuina e non
succedeva nulla. Se invece le brache rimanevano attaccati alla
panca, voleva dire che era stata aromatizzata con la meno
costosa resina, ed allora cominciavano i guai! In inverno
immergevano il malcapitato in un pentolone della sua stessa
birra, con grossi pezzi di ghiaccio, e l'imbroglione se la
cavava al massimo con una polmonite. Ma in estate il pentolone
era pieno di birra bollente, con il rischio di finire lessati.
L'industria della birra continua fiorente ad espandere i consumi
sino al XVI° secolo, poi, con le rivoluzioni, le guerre
religiose che sconvolsero il nord Europa nella guerra dei trent'anni,
giunsero fortissime tassazioni e balzelli, ed i consumi
degradarono paurosamente - una volta di più a riprova che certi
governo non sanno trovare nulla di meglio delle facili
tassazioni sui consumi popolari per risolvere, o credere di
risolvere, i loro problemi economici.
Dal XVII secolo in Bavaria e dal XVIII secolo in Germania,
avviene la ripresa dei consumi, favorita da tassazioni meno
pesanti oltre che dalle più perfezionate tecniche di lavorazione
che ne abbassano i costi migliorando la qualità.
Anche in Inghilterra, sino dai tempi della romana Britannia, era
in uso la preparazione della birra di orzo, preparata
artigianalmente per l'uso familiare e aromatizzata con rosmarino
e verbena. I conquistatori Romani erano soliti gustarla a piena
gola, con maggiore soddisfazione di quel loro intruglio di acqua
e vino divenuto nel frattempo aceto.
Così come ancora oggi a Trieste, i contadini che intendono
vendere vino direttamente al pubblico sono soliti esporre
davanti alle loro case un ramo d'albero che da ciò sono dette
"frasche"; così gli antichi britanni ponevano davanti alle loro
case un palo con avvinta un'edera, per segnalare che erano
disponibili a vendere la birra che producevano.
La birra era consumata in Inghilterra in grandissime quantità,
ma il popolo beveva birra schietta solo nelle grandi occasioni;
per il resto dell'anno doveva accontentarsi di una birra
leggera, ricavata dalle trebbie, ciò a causa dei pesanti
balzelli che anche in quei tempi affliggeva l'Inghilterra. In
ogni contea si produceva un tipo di birra diverso, della cui
formula erano gelosi custodi, e si dice che la migliore
provenisse dalla zona del Wessex.
Anche la Scozia aveva la sua brava birra, e celeberrima era
quella che producevano certi monaci di un convento nelle
vicinanze di Glasgow e della quale, si dice, fosse un assiduo
estimatore anche San Kentigern, fondatore appunto di quella
città.
I re anglosassoni commemoravano i loro morti in battaglia
durante interminabili banchetti, nel corso dei quali facevano
l'appello dei caduti e ad ogni nome seguiva un abbondante
brindisi. Terminato il primo elenco, ne seguiva un secondo, nel
quale si onoravano i combattenti che meglio si erano distinti
sul campo; a questo punto ci sorge il sospetto che dovesse
seguire un terzo elenco, di quelli dei defunti nel corso del
banchetto, per eccessivo....amor di patria!
Un popolare poema medievale anglosassone, narra le eroiche
imprese di Beowulf il quale affronta, nemmeno a dirlo, il mostro
Grendel che aveva il brutto vizio di divorare i commensali dei
banchetti reali che si attardavano troppo alle mense del re. Il
nostro eroe, prima di cominciare la titanica lotta, si rifocilla
con colossali bevute di birra, insieme ad i suoi accoliti, e
poiché egli é un eroe, ha il dono di non cadere mai ubriaco,
mentre gli uomini della sua squadra, che eroi non sono, cadono
uno dopo l'altro a terra ubriachi. Ovviamente Grendel senza por
tempo in mezzo, se li mangia uno alla volta, talché il povero
Beowulf é costretto a combattere da solo una battaglia
interrotta da frequenti formidabili libagioni. Ma poiché,
ripetiamo, il nostro eroe é un eroe, non può far altro che
vincere, uccidendo infine l'odiato mostro. E giù nuova bevuta di
birra. Così via per tutto l'interminabile poema, tanto che ad un
certo punto ci sorge il sospetto che sia stato scritto non tanto
per commemorare le gesta epiche dell'eroe, quanto le sue
colossali bevute.
I Danesi durante le secolari guerre combattute contro gli
Inglesi, erano soliti portarsi dietro la loro birra, per
rifocillare il proprio esercito, ritenendo la birra inglese
orrendamente disgustosa. Per contro gli Inglesi nutrivano
analogo sentimento nei confronti della birra danese. In materia
di odio sociale erano entrambi ben forniti!
Il bellissimo Re Alfredo d'Inghilterra, vissuto nel VIII°
secolo, fu un famoso collezionista e cultore di birra, che
sapeva produrre, si dice, buonissima, secondo una sua personale
formula. E' passato alla storia poiché, fra una battaglia persa
ed una vinta, riuscì finalmente a sconfiggere gli odiati danesi
nell'anno 814, stipulando la Pace di Wemor. Non potevano mancare
gli immancabili brindisi a base di birra danese ed inglese,
scambiandosi fra vinti e vincitori le rispettive botti,
superando finalmente anche il rispettivo atavico disgusto
birrario.
Ovunque in Inghilterra si produceva birra, con i più svariati
sistemi ed aromatizzazoni. Occorreva una regolamentazione, così,
nel 1200, si giunge al codice di Hywel Dda, molto simile al
successivo di Guglielmo IV, con il quale si dettavano regole di
produzione e di mercato, stabilendo pesanti sanzioni per i
contravventori.
Soltanto dopo il 1400 comincia in concreto lo sviluppo
industriale con il conseguente maggiore incremento dei consumi e
nel 1454 Enrico IV concede la prima patente di fabbricazione
della storia inglese, alla Brewers' Company (Corporazione
birraria).
L'Italia é, come noto, un paese a forte vocazione vitivinicola.
Ciò non toglie che le popolazioni italiche abbiano, più o meno
saltuariamente, gustato quella bevanda che i barbari invasori si
portavano dietro nelle loro scorribande sul nostro suolo. Quando
poi gli invasori restavano a secco del loro prodotto originale,
razziavano l'orzo dei campi per prepararsi in loco quella birra
della quale non potevano proprio fare a meno.
Le prime popolazioni italiche a bere birra furono certamente
quelle della fascia sub alpina, ed in particolare il triveneto,
zone, per la loro facilità di accesso, più bersagliate dai
barbari che calavano dal nord. Il primo centro italiano del
quale si ha notizia certa di produzioni di birra locale fu
Pavia, quando fu eletta capitale longobarda nel V° secolo, e
furono gli stessi conquistatori longobardi ad insegnare le fasi
della lavorazione alle genti del posto, dopo che ebbero esaurite
le scorte che si erano portate al seguito. Ma quelle produzioni
durano solo per il tempo dell'invasione longobarda.
Non diversamente fece Alboino il quale calava in Italia nel 568,
facendosi subito nominare Re. Ben presto esaurì la sua birra, ed
allora fece requisire tutto il vasellame di rame del posto,
tutto l'orzo dei campi, per produrre nuova birra per il suo
esercito assetato. E fu certamente birra che fece bere a
Rosmunda nel cranio del di lei padre, Cunimondo, che lui stesso
aveva personalmente ucciso. Ma, come sappiamo, Rosmunda non
dimenticò l'affronto e, meditando vendetta, si fece intanto
amante di Elmichi, lo scudiero del re. Alboino riprende le sue
scorribande sul suolo italico e, dopo tre anni di assedio,
riesce a conquistare Pavia e da li si spinge sino a Verona dove
si insedia nel palazzo di Teodorico e chissà dove sarebbe
arrivato questa tempera di conquistatore se, dopo soli tre
giorni, il suo poco fidato scudiero non fosse riuscito
finalmente a propinargli una tazza di birra avvelenata.
Il prezzo del regicidio é l'amore di Rosmunda e i due colombi
convolano a Ravenna dove Rosmunda, fra l'alcova ed un banchetto,
tenta a sua volta di avvelenare l'amante. Elmichi però mangia la
foglia e, scambiando i calici di birra, rimanda la palla a
Rosmunda la quale conclude così la sua sventurata e tragica
esistenza terrena.
Ben altra birra, meno indigesta e più salutare, sapeva preparare
Teodolinda, figlia di Gariboldo di Baviera, anch'egli grande
intenditore e preparatore di birra, famosa in tutta la Germania
dell'epoca. Per tutto il periodo della sua reggenza del Regno
Longobardo, ceduto al figlio Adolardo che viene incoronato nel
625, era rinomata la sua corte di Monza dove teneva sontuosi
banchetti a base di spumeggiante birra che gli ospiti facevano a
gara a bere a più non posso.
Teodolinda, fervente cattolica, contribuì alla conversione delle
sue genti e si dava da fare per raccogliere fondi destinati alla
costruzione di chiese e basiliche. Due volte l'anno inviava a
Papa Gregorio Magno grandi quantità di birra, che il Pontefice
faceva magnanimamente distribuire al popolo romano che
apprezzava il dono con canti, danze e festeggiamenti che
duravano fin quanto duravano le scorte di birra.
Papa Gregorio Magno, per la sua casta santità, non era un grande
estimatore della bionda bevanda, come d'altronde non lo era di
tutte le bevande a base alcolica, preferendo la più semplice
acqua. Meno casto e certamente meno in odore di santità Clemente
V, assurto al papato nel 1300, il quale, per le sue origini
tedesche, amava più del dovuto la buona birra che si faceva
produrre in abbondanza ed in abbondanza tracannava. I cittadini
romani vissero, sotto di lui, un periodo d'oro per i loro
consumi di questa bevanda, pur rimanendo saldamente legati alla
"fojetta" trasteverina.
Cala Barbarossa in Italia e con lui fiumi di birra, prodotta dai
tedeschi, fiamminghi ed inglesi al soldo del condottiero. Le
genti italiche imparano a produrla, più per farne oggetto di
mercato con l'esercito occupante che per il proprio consumo, che
stenta a crescere, poiché la bionda bevanda é strettamente
collegata al nordico invasore, quindi guardata con sospetto e
con rancore. Sono momenti episodici che non lasciano alcuna
traccia.
Di ben altro avviso sono i frati dei conventi che attribuiscono
alla birra poteri medicamentosi, primi fra tutti i frati
dell'Abbazia di Montecassino. Nella quiete dei loro chiostri,
solerti frati orano e lavorano pasticciando con erbe e radici,
dando vita a quel fiorente commercio di liquori e medicinali
artigianali di cui ogni Abbazia vanta primati e specialità,
tramandate nei secoli sino ai nostri giorni. I contadini portano
nei conventi l'orzo che i monaci trasformano in birra, con
variazioni sul tema, ed il commercio si allarga e l'uso si
diffonde, anche se non esce ancora dai confini comunali.
Ma la birra non viene ancora vissuta come bevanda alimentare,
bensì solo come bevanda medicamentosa; viene somministrata ai
convalescenti come ricostituente, alle partorienti perché
producano più latte, ai malati quale dieta alimentare, come
purgante, come digestivo e per migliorare la circolazione del
sangue. E' una birra forte, densa, corposa, carica di potere
nutrizionale. Le famose birre d'Abbazia belghe ne conservano
tuttora la memoria storica.
Mentre il popolo ne fa un consumo saltuario e modestissimo,
legato alle vicissitudine della salute, nelle corti reali il
consumo é pressoché abituale, la birra é di casa insieme e più
del vino. I monarchi di tutto il nord, quando non sono in lotta
fra loro, si scambiano vincoli di sangue in un fitto scambio di
parentele fra re e imperatori, e con le parentele si scambiano i
tipi di birra.
Fa produrre birra a Milano l'imperatore tedesco Massimiliano,
andando sposo nel 1500 con Maria Bianca Visconti, per
distribuirla ai festanti milanesi, insieme a confetti e dolci.
Se ne beve abitualmente alla corte di Lorenzo il Magnifico,
suggerita da Luigi Pulci, poeta, raffinato maestro culinario e
grande estimatore di vini e di bevande, tanto da essere
considerato il padre dei moderni Sommelier. Gran mangiatore,
gaudente e gran burlone, oltre che rallegrare le mense di
Lorenzo, sovrintendeva alla distribuzione delle bevande,
soprattutto vino, con sapienti abbinamenti al cibo; consigliava
invece di bere birra con crescioni - specie di pastella
lievitata e fritta - fra in pasto e l'altro per non perdere
l'abitudine di mangiare!
Passerà ai posteri per il suo poema in rime "Morgante Maggiore";
fa dire al gigante Margutta nell'VIII° canto:
....e credo alcune volte anco nel burro,
ne la cervogia e, quando io n'ho, nel mosto.... |
Cervogia é dunque il nome della birra nell'Italia medievale, con
chiara derivazione fonetica da "cereale" che risale a sua volta
da Cerere, la dea romana del raccolto, la dea delle messi, del
grano e dell'orzo, la Grande Madre della Terra dalla quale
scaturisce la vita materiale ed esoterica.
Finisce qui questo breve trattato sulla birra nel mondo antico e
medievale, avendo voluto soffermare l'attenzione del lettore
soprattutto su fatti, fatterelli e misfatti in qualche modo
legati al meraviglioso mondo della birra, mondo che per
descriverlo tutto occorrerebbe scrivere l'intera storia
dell'umanità, poiché la storia della birra nasce con la storia
dell'uomo.
La birra nell'età moderna
Sviluppo dell'industria birraria in Italia
Per tutto il medioevo e sino all'inizio dell'era moderna
propriamente detta, in Italia si era prodotta birra
esclusivamante con metodi artigianali, per il raro consumo dei
pochi estimatori. Si trattava di produzioni discontinue, legate
a fattori strettamente temporanei e locali. La birra veniva
vissuta, dal grande pubblico, come una bevanda tipica delle
genti del nord, da sempre invasori dell'italico suolo e, come
tali, da sempre nemici. Quella loro strana bibita, che nulla
aveva a che vedere con il più noto ed apprezzato vino, non
poteva quindi non essere guardata come minimo con sospetto. La
birra si importava per lo più dall'Austria, retaggio della
dominazione borbonica che influenza soprattutto il nord, ed era
legata ad un uso elitario, mentre i consumi popolari confluivano
essenzialmente sul vino, anche per ovvi motivi di minor costo e
di più facile reperimento.
Dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso perché finalmente
anche in Italia sorgano le prime vere e proprie fabbriche,
organizzate con moderni criteri di produzione industriale. Sono
ovviamente opera, per lo più, di intraprendenti industriali
d'oltralpe, i quali vedono in Italia prospettive commerciali di
sicuro interesse, (i vari Wuhrer, Dreher, Paskowski, Metzger,
Caratch, Von Wunster, ecc.) ai quali presto fanno seguito anche
commercianti italiani, soprattutto fabbricanti di ghiaccio che
vedono nella birra il naturale complemento della loro attività,
che si esplicava esclusivamente in estate.
In pochi lustri assistiamo ad un continuo frenetico fiorire di
fabbriche di ogni tipo e dimensione, sino ad arrivare, nel 1890,
a ben 140 unità produttive, per un totale di 161.000 hl, ai
quali vanno sommate le importazioni che raggiungono, in quell'anno,
50.738 hl, pari a circa il 25% del consumo nazionale.
Nel breve volgere di un ventennio, diminuiscono di nove unità il
numero delle fabbriche, ma molte di queste crescono di
dimensione e capacità imprenditoriale, in rapporto alla sempre
maggiore espansione dei consumi, grazie anche al più accessibile
costo della bevanda che può così raggiungere le fasce popolari.
La produzione quadruplica e, nel 1910, arriva alla considerevole
cifra di ben 598.315 hl. Anche le importazioni salgono, seppure
non nella stessa percentuale, toccando 85.934 hl, pari al 13%
del consumo nazionale.
Giungiamo così alla Grande Guerra, e, per tutto il periodo
bellico, cessa pressoché la produzione della bionda bevanda,
essenzialmente per il fatto che la maggior parte del malto
occorrente per la fabbricazione doveva essere reperito
all'estero, essendo ancora insufficiente, oltre che di scarsa
qualità, il malto di provenienza nazionale.
Non birra, ma vino bevevano i baldi fanti italiani quando si
lanciavano all'assalto dell'austro-ungarico esercito, il quale,
a sua volta, non vino, ma bionda birra beveva! e le rispettive
bevande entravano a far parte delle rispettive invettive!
Con il finire della guerra ed il ritorno alla normalità,
assistiamo ad una vera e propria esplosione di consumi, dovuta,
chissà? anche alla maggior conoscenza e divulgazione della
birra, apprezzata, fra tanta morte e distruzione, proprio sui
campi di battaglia. Nel 1920 le fabbriche italiane sono soltanto
58, ma la produzione arriva alla ragguardevole cifra di
1.157.024 hl, ai quali si aggiungono soltanto alcune centinaia
di ettolitri di birra importata. Crescono e si consolidano
quelle aziende che, nel volgere di alcuni decenni, diventeranno
le grandi realtà industriali del settore, come la Wuhrer di
Brescia, la Dreher di Trieste, la Paskowski di Firenze e Roma,
le Birrerie Meridionali di Napoli di proprietà dalla famiglia
Peroni, la Pedavena di Feltre, la Poretti di Iduno Olona, la
Moretti di Udine, la Wunster di Bergamo, alle quali fanno
corollario una pletora di medio-piccole birrerie, come la
Menabrea di Biella, la Icnusa di Cagliari, la Cagnacci di
Ancona, la Birra d'Abruzzo di Castel di Sangro, la Dell'Orso &
Sanvico di Perugia, la S.Giusto di Macerata, la Ghione &
Pogliani di Borgomanero, la Bosio & Caratsch di Torino, la F.lli
Di Giacomo di Livorno, la Brennero di Milano, la Raffo di
Taranto, la Forst di Merano, e poi ancora la Leone, la Sempione,
la Cervisia, la Metzeger, ecc.
I consumi salgono ancora e, nel 1925, la produzione raggiunge
1.569.000 hl. Cresce anche l'importazione, fermandosi però a
poco più di 30.000 hl. I consumi procapite toccano i tre litri e
mezzo - molto distanti dai consumi del vino che superano invece
i 150 litri - e fanno ben sperare per il futuro, vista la
rapidità con la quale aumentano di anno in anno.
A questo punto si scatena la reazione dei vinai che, di quel
passo, temono di dover affrontare a breve una crisi del loro
settore. Riescono quindi a far approvare dal Governo leggi
protezionistiche a tutela dei loro interessi. Così, nel 1927,
viene varata la legge Marescalchi la quale, con l'apparente
scopo di favorire l'agricoltura, ma con la recondita speranza di
peggiorare la qualità della birra, impone ai birrai l'immissione
di un 15% di riso. Le tecnologie dell'epoca non consentivano
infatti di sfruttare appieno tutte le caratteristiche positive
del riso, e la qualità, anche se in minima parte, ne risentiva.
Contemporaneamente si inaspriscono le tasse con l'aggiunta di
una imposta straordinaria di ben 40 lire per hl. Ma non basta.
La legge prevedeva inoltre una apposita licenza di vendita di
"bassa gradazione" e ne limita lo smercio al dettaglio
esclusivamente nei bar's, trattorie e birrerie. I "vini e oli",
categoria di esercizi molto diffusa all'epoca, non possono
vendere al minuto, ma solo all'ingrosso a casse intere. A
rincarare la dose, in molti Comuni il "dazio" viene regolato con
l'applicazione di fascette sul collo di ciascuna bottiglia, con
immaginabili intralci e perdite di tempo che fanno cadere
l'interesse dei commercianti verso il prodotto.
L'effetto è immediato, ed i consumi scendono vorticosamente, non
tanto per il livello qualitativo, che rimane comunque
accettabile, quanto per l'inevitabile levitazione dei prezzi che
pongono il prodotto fuori della portata delle masse popolari.
Quindi nel 1930 la produzione crolla a 672.325 hl mentre
l'importazione rimane ancora attestata sui 30.000. I consumi
procapite scendono a 1,64 litri annui, con grande soddisfazione
di chi aveva voluto quella miope legge. Molte fabbriche chiudono
o falliscono e le restanti 45 soffrono grandi difficoltà e sono
costrette a licenziare il personale per poter sopravvivere in
qualche modo. Non resta loro altro da fare che concentrare le
produzioni. Attraverso una azione concordata fra i più
lungimiranti ed intraprendenti industriali, si procede alla
ripartizione degli spazi di mercato, rilevando, nel contempo, le
aziende in crisi e riducendo ulteriormente il numero dei centri
di produzione che sono ora tutti in mano alle più grandi e più
solide famiglie birrarie.
Inevitabilmente, dopo un breve periodo di tregua, si scatena una
feroce concorrenza della quale approfittano i commercianti al
dettaglio con richieste sempre più esose di sconti, omaggi e
premi, tanto che le birrerie si vedono costrette a consorziarsi
in un patto di rispetto - 1933 - che regola le comuni politiche
di sconti e premi, e le cose migliorano, se non altro perché
smettono di dissanguarsi.
La ripresa dei consumi è comunque lentissima e, nel 1940, la
produzione arriva appena a 814.638 hl, mentre crolla
l'importazione, tutelata da dazi protettivi imposti dal Governo
per dare un contentino ai birrai. Il procapite, anche per
effetto della crescita della popolazione, scende comunque a 1,60
litri annui.
Di nuovo la guerra, e la produzione rallenta progressivamente,
fintanto che tutte le fabbriche, negli ultimi anni del
conflitto, sono costrette a fermarsi per mancanza di materia
prima. Cessate le ostilità, gli industriali del settore birrario
si leccano le ferite delle loro aziende, uscite dal periodo
bellico più o meno danneggiate, e riprendono faticosamente
l'attività. Dobbiamo comunque arrivare al 1950 per risalire alle
quote produttive del 1925, raggiungendo 1.548.800 hl ai quali si
aggiungono circa 15.000 hl di birra importata, ed il procapite
arriva a 3,28 litri annui.
Sino al 1959 i consumi oscillano con alterne vicende, dovute
esclusivamente all'andamento climatico della stagione estiva, da
1.500.000 a 2.000.000 di hl, con l'importazione che non supera
il 2% dei consumi totali ed il procapite rimane contenuto fra i
3 ed i 4 litri anno. Va detto comunque che sino a quegli anni la
birra veniva bevuta in un arco di tempo che andava da marzo a
settembre; rientrava, nella mentalità corrente, fra le comuni
bevande dissetanti, come le bibite gassate, e come tale veniva
consumata esclusivamente al banco. Era addirittura opinione
popolare che la preparazione avvenisse con chissà quali
misteriosi sciroppi, né più né meno come una aranciata od una
gassosa. Nei mesi invernali quindi le fabbriche chiudevano,
dedicandosi a lavori di manutenzione e riordino delle strutture.
Dal 1960 finalmente la birra accede nel canale alimentare, dal
quale può raggiungere facilmente le famiglie, e così, nel
volgere di un decennio, la produzione arriva a toccare i sei
milioni di ettolitri, con un procapite che supera undici litri e
mezzo. Sino al 1975 la birra continua la sua avanzata trionfante
sino ad arrivare ad otto milioni di ettolitri di produzione, con
oltre 570.000 hl di importazione, ed il procapite si attesta
intorno ai sedici litri. Finalmente i consumatori hanno compreso
lo spirito della bevanda, nobilitandola nella sua giusta
dimensione, e tutti ormai sanno che si ricava dal malto e che
non ha nulla a che vedere con le bibite gassate. Gli industriali
tirano un sospiro di sollievo: euforicamente ottimisti, già
fanno previsioni a lunga scadenza ritenendo che, di quel passo,
negli anni novanta sarà possibile superare i 40 litri,
posizionandosi su soddisfacenti medie europee, e c'è già chi
pensa a potenziare le proprie strutture produttive.
Ma la congiuntura è alle porte, e quando scoppia virulenta nel
1975, colpisce inevitabilmente anche il settore birrario
nazionale, che perde un drammatico 19,5%, scendendo a 6.465.000
hl, tornando alle stesse quote di cinque anni prima, mentre,
stranamente, l'importazione cresce del 40%, arrivando a toccare
i 652.000 hl.
Come se non bastasse, il Governo decide di aumentare del 50%
l'imposta di fabbricazione, con un consistente balzo in avanti
dei prezzi al pubblico, la qual cosa, in una economia di
recessione, rallenta considerevolmente la ripresa, che sarà
lenta e faticosa, ed occorreranno altri cinque anno per risalire
ai sedici litri di consumo procapite.
Dagli anni ottanta in poi e sino ad oggi i consumi crescono
costantemente di anno in anno; di poco per volta, ma crescono
sino ad arrivare ai 27 litri del 1995. Cresce la produzione
interna, ma cresce soprattutto l'importazione che passa dai
652.000 hl del 1975 ai 3.154.000 hl del 1994, mentre la
produzione nazionale, nello stesso anno, arriva a poco più di
dodici milioni.
Le unita produttive sul territorio italiano sono attualmente 18,
con oltre 3.500 dipendenti, e fanno tutte parte, con esclusione
della Forst ancora solidamente in mano alla stessa famiglia, di
grossi raggruppamenti internazionali.
Siamo comunque ben lungi dai consumi di birra delle altre
nazioni europee; con i nostri 27 litri siamo all'ultimo posto
della scala, preceduti dalla Francia (altro paese a forte
vocazione vitivinicola!) con 39.3 litri, dalla Grecia con 42
litri e dalla Spagna con 66.5 litri.
Ma il futuro fa ben sperare! Sempre nuovi consumatori si
accostano ogni giorno a questa splendida antichissima bevanda,
in virtù delle sue caratteristiche di freschezza, bevibilità e
digeribilità, ma grazie soprattutto alla europeizzazione delle
aziende di produzione che ha fatto fare un grosso balzo in
avanti alla qualità, offrendo ai consumatori una straordinaria
gamma di assortimento in grado di soddisfare i palati più
esigenti.
|